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Tal volta pare irrefrenabile la spinta a mettere in discussione la diversità ambientale e, come conseguenza, la tutela dello spazio collinare.

Il nostro rapporto con la fragilità del territorio collinare, ma più in generale con il suolo che calpestiamo tutti i giorni, è molto difficile. Tutti i giorni commettiamo azioni illecite o arbitrarie degli spazi edilizi e urbanistici.

Ogni giorno si sottrae suolo ad un ritmo di 6-7 m2, che secondo le stime pubblicate sul Rapporto ISPRA, viene utilizzato per fini diversi. Questo spazio, stimato in circa 55 ettari/giorno, è sottratto per il 60% all’agricoltura, per la restante parte alle aree urbane e a quelle naturali.

Lo stesso rapporto continua nel ricordare che si è “cancellato anche il 20% della fascia costiera italiana, insieme a 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica e il 5% delle rive di fiumi e laghi” e a fronte di tutto ciò “le città continuano a espandersi disordinatamente, con un tessuto urbano a bassa densità che frammenta il paesaggio e gli habitat naturali.” Il rapporto, inoltre, insiste sostenendo che “le modifiche al suolo influiscono anche sul microclima urbano, favorendo le variazioni di temperatura tra città e campagna”.

Questo è il frutto di una visione puramente economicista del progresso, che tende a ricondurre e ridurre tutto, la condizione della vita sociale, quella politica, quella culturale, alle convenienze economiche e all’interesse che scaturisce dalla convenienza, piegando ogni aspetto della vita umana ad altri interessi preminenti. Lo stesso Antonio Gramsci ne parlava in termini dispregiativi, accusando la visione economicistica, di voler escludere qualsiasi visione ideale del disegno di progresso e sviluppo della società.

Cos’è il progresso se non il riconoscimento di forme di vita migliori e più complesse. Significa accrescimento, ampliamento, crescita, espansione, incremento, potenziamento di un rapporto armonico fra tutti gli aspetti della vita terrena. 

È accettabile il solo sviluppo economico se avviene a spese e a scapito delle libertà, dell’avanzamento sociale e di quello culturale, nonché del godere della possibilità di fruire dei frutti che la terra ci concede, tutti raggruppabili nella parola ambiente, casa comune della nostra permanenza sulla terra? 

La conseguenza per la nostra società, nella migliore delle ipotesi, comporterebbe un ristagno e un degrado; ma potrebbe evidenziarsi anche un regresso delle condizioni di vita e questo per molti sta già accadendo. 

Senza voler esagerare, ciò che è accaduto a Monte Capra va nella direzione paventata. Ma ciò che colpisce maggiormente e che avvenga nel silenzio quasi unanime, che lascia pensare ad una popolazione combattuta fra considerare il fatto come ineluttabile e dall’altro come l’intenzione di non immischiarsi di cose più grandi di noi.

Qualcuno ha chiesto: ma l’accaduto di chi è colpa? 

Da quanto si è potuto capire l’Amministrazione Comunale nulla poteva fare per impedire l’accaduto. L’Unione dei Comuni ha solamente applicato una norma che altri hanno scritto. Il problema sorge, a parere dei più, come conseguenza derivante dall’applicazione della vigente Legge Regionale.

È dunque giunto il momento di porre il problema di modificare una legge che, oggi, si è dimostrata fallace.

La coscienza collettiva nel corso degli anni si è usurata e logorata, lentamente consumata, fino ad esaurirsi ed i territori collinari sono via via entrati in crisi.

La conseguenza della quasi scomparsa dell’agricoltura ha fatto apparire il dissesto del territorio, l’abbandono della sua cura la mancanza di drenaggi delle acque ha fatto emergere la presenza di acque sempre più ingovernabili.

Gli stessi vincoli paesistici ed urbanistici non sono riusciti ad evitare il degrado e l’arte tutta italiana della “scappatoia” si è disinteressata della norma o l’ha addirittura raggirata spesso con complicità insospettabili. 

La bellezza del territorio ed in questo caso di quello collinare, è diventato un mito portando lo stesso territorio alla stregua di un territorio privilegiato, insinuando la convinzione di non frequentare certi luoghi perché di “pochi residenti” e facendo diventare il territorio una sorta di tabù.

Scritto da
Giannino Ferrari

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