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Non vi furono delatori

In molti sapevano dei “ribelli” e tal volta anche delle loro “basi” nella vicina boscaglia o nei cunicoli gessosi; ma non vi furono spie.

Mesi terribili; il tempo sembra fermarsi, non passa mai. I bombardamenti si susseguono uno dopo l’altro. In lontananza si sente il rombo dei canoni di lunga gittata mentre la linea del fronte resta inspiegabilmente inchiodata sugli Appennini.

Finalmente, dopo tante paure e tanto sangue, ecco concludersi questa tormentata “Via Crucis”. Era l’aprile del 1945. Fu data sepoltura agli ultimi sfortunati fratelli caduti combattendo ai piedi di Monte Capra per vincere resistenze di un covo tedesco che non voleva cedere nonostante che Bologna fosse già totalmente liberata dai partigiani e occupata dalle armate Alleate.

Tornarono i reduci sopravvissuti nei vari fronti di guerra. Riprese lentamente e fra tante difficoltà la produzione del gesso. Mancava la corrente elettrica e la lavorazione, tutta a mano, avveniva facendo ricorso ai metodi primitivi sotto la guida dei minatori più anziani, abilissimi nell’uso degli antichi arnesi completamente sconosciuti a noi giovanissimi.

Con la produzione del gesso (materia prima ricercatissima specie nel primo periodo della ricostruzione) anche la fame si placò, dopo anni di tessere annonarie, di razionamenti, di patate bollite e di pane nero impastato con una miscela puzzolente.

Per la gente del Borgo il gesso significò ritorno alla vita; qualche soldo in tasca e riassaporare, di nuovo, a mandare giù un po’ di lombo. Un po’ di salsiccia, un po’ di lardo ottenuto attraverso lo scambio diretto gesso-generi alimentari in un rapporto diretto con un gruppo di commercianti modenesi.


Da produttori a “commercianti”

Scopriamo poi (chi scrive ed il suo inseparabile amico Tugnèi, vivo e vegeto col nome di Tonino Mongiorgi) che con un po’ d’ingegno era possibile guadagnare qualche biglietto da ceto lire in più.

Come? Abbandonammo il mestiere di “produttori” per intraprendere quello di “commercianti”, comprando e rivendendo il gesso – sempre in giornata – acquistato dai nostri compaesani. Un trasporto (4 quintali circa ogni mattina), a dir il vero, non molto meccanizzato: la forza motrice era rappresentata dalla nostra forza fisica (si direbbe: barrocciai senza cavallo) trascinando un “bruzèi” (piccolo carretto) dal borgo dei Gessi fino a Bologna esattamente in via dè Gombruti (a due passi da piazza Malpighi). Un lungo tratto di strada (diciamo 12+ 12 km) in arte inghiaiato, che percorrevamo, giorno dopo giorno, vendendo la nostra “merce” a una piccola impresa edile (Levi-Sadi) con pagamento “sull’unghia” (cioè subito). 

La fatica si faceva sentire. Bisognava in qualche modo alimentarsi e fu così che sia all’andata che al ritorno facevamo breve sosta nella zona dello stadio, per rifornirci “ed castagnaz” (torta di farina di castagne) che di colpo “ad cavèva la fàm” (ti toglieva la fame) ma che in fatto di proteine e vitamine lasciava molto a desiderare. Ma “quand la fàm la dis da bòn bisòggna pur infilèr quèl in dal garganòz” (quando la fame dice sul serio bisogna pur infilare qualcosa nell’esofago).

Come procedeva il nostro viaggio? Nell’andata a “pieno carico”, c’era da tirare come muli, per tutti e de. Il ritorno meno faticoso, anche perché ci si alternava: per un tratto si tirava e per un altro tratto seduto sul carretto come un papa.


Un immenso “fungo”

Fu proprio nel ritorno (ero di turno alle stanghe), a pochi metri dal ponte di Casalecchio, un “fungo” (calcinacci, fumo, polvere). Di colpo abbandonai il carretto e cercai riparo nei fabbricati sulla destra. Non c’era tempo per chiedersi cosa stava succedendo; “piovevano” detriti da tutte le parti.

Le sirene dell’allarme aereo non si erano sentite, né si era udito il rombo inconfondibile dei bombardieri. Nemmeno il passaggio del famoso “Pippo”, (apparecchio che viaggiava solitario ad altissima quota) in continua ricognizione, armato di micidiali mitragliatrici, e con a bordo qualche bombetta che poi, senza tanti preavvisi ti scaricava addosso. 


Una bomba inesplosa

Allora cos’era a provocare tanto spavento? Pasè la pòra (passata la paura) con la gente che si era radunata subito dopo, fu presto ricostruito il fatto. Si trattava di una delle tante bombe sganciate dai bombardieri Alleati per colpire il ponte sul fiume Reno (che finirà poco dopo in frantumi), un punto di “passaggio strategico” che i tedeschi utilizzavano per i rifornimenti al fronte attraverso la Porrettana e la Val di Setta. Una di queste bombe, rimasta inesplosa coperta da un cumula di macerie, sotto le quali aveva trovato “sepoltura” il rinomato albergo Brunetti, improvvisamente era scoppiata liberando tutto il suo spaventoso carico di violenza.

E il mio amico Tungèi – mi chiederete – dov’era finito? Beh, non aveva avuto il tempo materiale per tentare una “via di fuga”. Aveva cercato protezione buttandosi sotto il carretto. Sapemmo poi di qualche ferito. A noi due nessun graffio.

Un po’ turbati riprendemmo a spingere il carretto sulla via del ritorno. L’unico commento: “Anch stà vòlta l’è andè bàn” (anche questa volta è andata bene). I giorni seguenti di nuovo col nostro carico verso Bologna.


Un ringraziamento speciale a Loretta Drusilli per averci permesso di condividere con tutti voi questi estratti del libro “Al baurg di Zess e dintauran” di Bruno Drusilli.

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