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Fine della guerra

La fine della guerra segnò la “svolta”: lo stomaco brontolava sempre meno. La grande fame era finalmente passata. In tasca c’era già qualche liretta e un po’ di frutta si poteva comprare.

Così, dopo conflitti secolari passati attraverso generazioni che se ne vanno e generazioni che vengono, si arrivò, tacitamente, alla sospensione delle “ostilità” senza bisogno di ricorrere ad estenuanti trattative, quelle; quelle trattative un po’ in voga in questi tempi che subito dopo la stretta di mano come atto finale, che dovrebbe concludere l’intesa; sì ma proprio pochi istanti dopo, non appena alzi i tacchi e volti la schiena, ti arriva improvvisa la coltellata che “at manda da San Pir” (che ti manda da San Pietro, cioè all’altro mondo). Ma noi, perbacco, eravamo “gentiluomini”; sàinza tanti ciàcar asmèsan ed gratèr (senza tante chiacchiere smettemmo di rubare).

“Tutto qui?” ci può obiettare il lettore malizioso. “era un fatto di civiltà – come dire – dovuto”. Ma qualche conseguenza (non stiamo scherzando) scaturì dal nostro diverso comportamento. Osservate bene le poche campagne rimaste: sono spariti, da vecchia data, filari e appezzamenti, il segno – si può dire – dei Romani, lasciato specialmente qui in Val Padana, ma sono pure sparite moltissime siepi di rovi o filo spinato che segnavano i confini tra l’una e l’altra proprietà e costituivano, nello stesso tempo, presidio, sbarramento, possiamo dire vera e propria difesa di prodotti dai ladruncoli.


Derubati e bricconi

A distanza di mezzo secolo e passa, possiamo discorrere con il massimo del distacco di certi “comportamenti”. Come giudicarci oggi? A “quei tempi”, infatti “quel dato periodo storico” dava, inevitabilmente, impronta molto forte ai costumi e agli stili di vita. Non cerco attenuanti. Sarebbe risibile, una vera sciocchezza. Sono sì passati decenni, ma non c’è tempo che tenga: “i sgranfgnèi ièn sàmpar sgrnfgnèi” (i ladri sono sempre ladri) e i derubati naturalmente dalla parte della ragione.

Qualche volta, conversando con alcuni paesani (ahimè in pochi siamo rimasti) mi è capitato di rievocare “quei fatti”. “Dal ciacàrè veramànt bòffi” (delle chiacchierate veramente buffe). Quattro risate affogavano le domande un pochino imbarazzanti. Un po’ per curiosità e un po’ sul serio, qualche riflessione a voce altra: “A pensarci bene, proprio nessun senso di colpa?”

Per tutta risposta un’etra sghignazè (un’altra risata). Ho capto; anche gli amici più “credenti” nel Padre Eterno considerano i “furtarelli” di allora, al massimo, – ma proprio al massimo –“un peccato veniale” che, come si sa, non lascia traccia alcuna nemmeno sulla coscienza di un cattolico praticante.

Allora …. Amen. Si vede che pure queste “minute furfanterie” (ahimè ai danni di poveri cristi) facevano parte della vita dei ragazzi del Borgo in continua “concorrenza” con le “bande” di Lavino di di Riale non meno esperte di noi nell’arte: quàl ed càt pòrtal a cà (quello che trovi portalo a casa).


L’acua sultanina – (l’acqua solforosa)

Dov’è finita la nostra “àcua sulfanèina”? Nascosta fra la fitt sterpaglia, la minuscola sorgente ha forse finito il suo ciclo? Difficile sapere se si è definitivamente esaurito o se, pur sepolta, vive ancora nell’attesa di un ritorno della mano dell’uomo.

Chissà perché quel giorno, così all’improvviso, mi è venuto in mente quel filo d’acqua che usciva da una fessura quasi invisibile. Una piccolissima crepa fra la roccia, e da lì usciva, chissà Dio, attraverso quali percorsi tortuosi, facendosi strada con un lavoro di scavo, che durava da tantissimi decenni.

E’ verosimile che la sua strada resti a noi sconosciuta (nasce sotto Monte Capra?) né sapremo mai il giorno in cui ha fatto “capolino” quasi alla chetichella. I più anziani ci hanno sempre risposto che l’avevan vèsta sànpar lè (l’avevano vista sempre lì. Sempre lì a monte del Borgo ad “un smass” (un palmo) dal piccolo rio, sul sentiero che porta a Ducentola.

C’è ancora? Dobbiamo cercarla. Una “compagna di vita” non si abbandona mai. Bisogna fare di tutto per rintracciarla. Ha sicuramente bisogno di “cure” più di allora che veniva pulita e coccolata ogni sera quando il tempo volgeva al bello.

Non era mai sola. A gruppetti salivamo sempre per dissetarci o “par fèer quatàr ciàcar” (per fare quattro chiacchiere) prima di fare ritorno al Borgo. Cercarla, curarla, rimetterla a nuovo, come facemmo nei primi mesi del dopoguerra. “L’era propri “mèsa mèl” (era proprio mesa male). Sì, era veramente malconcia. Era spiegabile: per un lungo periodo, con i tedeschi e fascisti alle calcagna, non si poteva certo pensare al’àcua sulfanèina; estirpare erbacce e rovi.

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