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Sebbene sia trascorso più di mezzo secolo, quando ci metto i piedi provo sempre nuove emozioni e i ricordi occupano tutto lo spazio della mia mente. Ci torno qualche volta per raccogliere erbe, prodotti del bosco e del sottobosco: urtìg, màuri, spèrz, vidèpar, prugnù, clùr (ortiche, more, asparagi, vitalba, prugnoli, nocciali) o semplicemente per fare una camminata alla ricerca di un viottolo tante volte percorso da ragazzo, ora sepolto da rovi e sterpaglie. A tratti il sentiero è completamente scomparso per via dell’inevitabile erosione delle acque e dell’abbandono di porzioni di terreno non più protetti dal lavoro dell’uomo che, nel passato, trovava in questi luoghi dimora e ne ricavava miseri sostentamenti.

Garibaldi prima, via Gesso poi). All’altezza del Centro sociale – di fronte all’ex scuola elementare – sulla sinistra si imbocca via Gessi, un brevissimo tratto di strada (poco meno di mille metri) ora coperto da un manto di asfalto, ma inghiaiato e polveroso fin dopo i primi anni del dopoguerra.

“Ma duv’èla la mi vècia burghè di Zess? (Ma dov’è la mia vecchia borgata dei Gessi?). Spariti i bei vigneti sulle sponde ripide del primo tratto della “gola”. Più nessuna traccia di decine di casupole dei gessaioli che riempivano la “conca” fino ai piedi dei versanti argillosi, quasi schiacciate da Monte Capra e Monte Rocca che ti dà sempre l’impressione che il suo cucuzzolo si stacchi da un momento all’altro e, come un missile, ti piombi sulla testa.”

Così scrive Bruno Drusilli introducendo un suo lavoro pubblicato nel giugno 2001. Si tratta di “Al baurg di Zess e dintauran” (Il borgo dei Gessi e dintorni). 

L’allora Assessore alla Cultura della Provincia di Bologna ne parla in questi termini; “In apparenza, dedicato al Borgo dei Gessi di Zola Predosa. In realtà, tale da configurare una specie di autobiografia dissimulata sotto forma di racconto. Dove prevale la cornice della comunità, nella sua profondità storica, nella sua dimensione autentica, filtrata dalla partecipazione diretta dell’autore, testimoniata dal ricorso alla lingua primordiale dell’infanzia, il dialetto, e della vita vissuta, sino agi anni della maturità.”

Il compianto ex sindaco del Comune di Zola Predosa Giacomo Venturi associa molto bene il racconto di Bruno con una realtà che va mutando luoghi e ricordi. Egli ci dice: “È quella del borgo una dimensione che progressivamente nel tempo stiamo perdendo a alla quale dovremmo dedicare attenzione, poiché in essa risiede una natura ed una forza dei rapporti tra le persone a cui rinunciare risulta arduo e pericoloso”. 

Venturi ci ricorda che “nell’epoca del diritto alla privacy, dei cancelli e delle inferiate, degli spioncini alle porte, ci scopriamo un po’ soli e forse anche un po’ più tristi. Dopo la lettura sono certo avrete voglia di sapere cosa c’è su questo sentiero, dov’è la fonte e se delle persone e dei fatti di questo libro vi è ancora traccia. Ma soprattutto avrete voglia di costruire voi una traccia della vostra vita legata a quella delle persone che vi circondano e che insieme a voi condividono luoghi, giorni, linguaggio.”

Abbiamo perciò pensato di riproporre il lavoro di Bruno. Lo faremo a puntate, pubblicando ogni settimana alcune parti, ma se qualcuno lo desiderasse, presso il Circolo Bruno Drusilli di Riale, Via Risorgimento n. 21, potrete averlo a disposizione per la lettura.

Ringraziamo la figlia Loretta che ci ha concesso la possibilità di intraprendere questa strada.

                                                                                                                             Giannino Ferrari


FORNO – OSTERIA – DROGHERIA

Dov’è finita la vecchia osteria e drogheria gestita, a quei tempi, dai fratelli Magnani? Era il luogo di ritrovo dei giovani e degli anziani: per bere, ciarlare, giocare a carte. Era la sola bottega del Borgo. In compenso c’era tutto: dal petròli ai macaròn, dal lòstar dal schèrp, ala murtadèla (dal petrolio ai maccheroni; dal lucido per le scarpe alla mortadella).

Si andava a far la spesa con il “libretto”, un minuscolo bloc-notes sul quale il droghiere (a volte Petronio, ma spesso il fratello Colombo, detto “al zio”) registrava l’importo. A fine mese si doveva saldare il conto (“se Dio atlà mandeva bona” e Dio te la mandava buona) se riuscivi a raggranellare i soldi per pagare.

Ma il “mal di pancia” di fine mese prendeva un po’ tutti – droghiere compreso – che spesso rischiava di non incassare per niente o viceversa soltanto gli acconti. In pochissimi (si contavano sulle dita di una mano) pagavano in “contanti” mentre i più, invocavano “la Madona ed San Lòca” (la Madonna di San Luca) per poter pagare in conto a fine mese.   

I MINATORI

Una comunità chiusa nel proprio guscio composta da 310 anime suddivise in 63 nuclei familiari. Gente tenace, laboriosa, legata con doppio filo a quel masso gessoso, tante volte benedetto e tante volte maledetto, dal quale ricavavano scarsi salari benché il lavoro nella cava fosse durissimo e rischioso. 

Accaniti bevitori di vino, anche di buon mattino, passando dalla vicina osteria, si scambiavano il “buon giorno” (beninteso, un semplice borbottio) sorseggiando un bicchierino di “sgnappa” (grappa). A me l’alcol dava nausea, ma nel breve periodo che ho lavorato in cava mi ero ben presto adeguato: insieme alla comitiva al sorgere del sole trangugiavo un buon bicchierno di “carburante”.


… CONTINUA. LA PROSSIMA VOLTA:

  • NON C’ERA POSTO PER I SEGRETI – Sì nel Borgo non c’era posto per i segreti, … 
  • NON TI SENTIVI MAI SOLO – Nella gente del Borgo c’era sempre un gran cuore, … 
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