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Il canto di una vecchia canzone

Così la vita nel Borgo: una flebile voce di donna (che tenta, forse, di scrollarsi di dosso i residui di una nostalgia per una gioventù sfiorita troppo in fretta) intona versi di una vecchia canzone:

Na vòlta aièra bèla
Adèsa ansò mo piò
An càsca la stanèla
Incìo aml’à tira so

Una volta ero bella
Adesso non lo sono più
Mi cade la gonna
Nessuna me la tira su


L’Italia, un stivèl pen ed macèri (pieno di macerie)

Ma nel dopoguerra si entra in un mondo radicalmente cambiato. L’Italia è uno stivale pieno di macerie e lutti, e la ricostruzione – non solo materiale ma anche morale – comporterà tempi lunghi e molto sudore. Anche il Borgo Gessi, sia pure lentamente, abbandona vecchie tradizioni, cambia volto, modo di vivere. In molti trovano lavoro a Bologna o nelle zone della cintura. La cava del gesso, del resto, non era più in grado di dare lavoro a tutti. Per gli anziani, il destino era segnato: legati al gesso per il resto della loro esistenza. Noi giovani eravamo spinti ad uscire dalla “Conca d’Oro”; prima col lavoro, più tardi con l’abitazione.

Per chi scrive, dopo un periodo d’apprendistato con i muratori, in un cantiere in città, “approdai”, nei primi mesi del 1946 alla Lega dei Barrocciai e dei Facchini di Zola Predosa. E, in tempi successivi, all’ufficio di collocamento e poi alla segreteria della Camera del Lavoro. Ma questa “singolare scuola di galateo” (mi riferisco a facchini e barrocciai) è tutt’altra storia.


Andèr a spanucèr (andare a spannocchiare)

Uno può tentare di descriverlo nei modi più semplici e più realisti possibili (e io non ne sono capace) magari facilitato dal fatto di avere vissuto quei tempi e quelle usanze, ma l’impresa, in ogni caso, risulterà assai ardua. A meno che… Già, a meno che (ipotesi molto fantasiosa) per magia la penna non fosse misteriosamente ispirata dalla mente del grande scrittore russo Nikolai Gògol, padre della narrativa realistica dell’ottocento e vero maestro di sottile e pungente ironia. Ma è solo un sogno, un vagare con la fantasia. Un modo, se volete, per mettere in luce una difficoltà nel provare di descrivere aspetti della vita autentici, davvero singolari, appartenuti ad una infinità di generazioni e che soltanto mezzo secolo fa qui da noi si sono estinti, ma che certamente sopravvivono ancora in altri continenti nei quali il grado di arretratezza e di estrema povertà in cui si trovano tante popolazioni impongono condizioni di esistenza disumane.

In fondo chi – non foss’altro che per diletto – ama spingere la propria mente in un passato ormai lontano per ricordare “quadretti d’usanze e costumi”, sa in partenza di correre rischi, magari generando nei lettori più giovani comprensibile incredulità. Ma lasciamo a chiunque il legittimo e sacrosanto diritto del “dubbio” e procediamo dopo un preambolo più lungo e noioso del previsto.

Prendiamo, dunque, di petto l’argomento: al furmintàn (ovvero il mais, il granoturco, il frumentone che dir si voglia). Se il lettore non ci solleva motivate obiezioni noi saremmo per sorvolare sui colori dei granelli, sulla “bontà” d’là farèina zàla (farina gialla) e per non dover indagare più tanto per capire perché Cristoforo Colombo portò il mais (originario dell’America Centrale) proprio nel paese del flamènco.

Foto da trattoridepocapiacentini.it

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