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Al foi ed furmintàn per giaciglio

Ci soffermeremo (non sembri una stravaganza) sulle foglie del granoturco, indispensabilipar la pòvra zàint (per la povera gente) per riempire il saccone di tela che serviva da giaciglio.

A quei tempi soltanto ristretti ceti facoltosi si potevano permettere il lusso di acquistare il soffice e caldo materasso di lana. Al custèva un’oc’ d’là tèsta (costava un occhio della testa; cioè moltissimo). Altre persone, che potremmo definire “categorie di mezzo” (poche a dir vero) rimediavano acquistando materassi di crine vegetale o di stoppa (residui a fibra corta ottenuti dalla pettinatura di lino e canapa) molto meno costosi di quella di lana.

E la granmassa del “popolino” – mi sarà chiesto – che diavolo comprava? An cumprèva propri gnìnta (non comprava proprio niente). Non faceva altro che procurarsi ogni anno le foglie di frumentone necessarie per rinnovare “al paiarèz” (il pagliericcio) che di solito, poggiava sopra a dei cavalletti di legno. Non c’era altro da inventare. Non si poteva nemmeno pensare allo “scambio”, al “baratto”, come avveniva nelle tribù delle società primitive per la semplice ragione che quel ”Cristo” che aveva bisogno delle foglie non aveva niente da offrire in cambio. Né, meno che mai, si poteva sperare sulla “generosità” de lcontadino per avere un po’ di foglie “a grètis” (gratis). L’inverno era lungo e il contadino sapeva benissimo che la paglia ricavata dalla trebbiatura del grano sarebbe bastata a malapena per “svernare”, e per assicurare un po’ di “letto” al bestiame che aveva bisogno delle stesse foglie di frumentone. Ma se anche avesse voluto favorire un parente o un amico bisognoso di “rimettere a nuovo” il pagliericcio, avrebbe dovuto tenere gli ochhi ben aperti. Su di lui veniva esercitata una vigilanza attenta e costante da “personaggi” he non si lasciavano facilmente impietosire di fronte ad eventuali “marachelle” commesse dal contadino. I “terribili” personaggi?

Eccoli: al padràn dal sit, al fatàur, al capurèl (il padrone del podere, il fattore – di fatto l’amministratore del padrone) il caporale, colui che, talvolta, non abbandonava il podere nemmeno di notte. Come dire: un controllo spietato tale da far impallidire i più preparati agenti della CIA.


Mano d’opera in cambio di foglie

Dunque “le vie del Signore – parafrasando il compianto Troisi – non sono infinite”. Una soluzione soltanto: mano d’opera in cambio delle foglie; mano d’opera per la raccolta delle pannocchie, ma il più delle volte mano d’opera a “spanucèr” (a spannocchiare) che, quasi sempre, avveniva nell’aia del contadino, dopo cena e, naturalmente, dopo una lunga giornata nella cava o nei campi. Il lavoro era semplicissimo, non richiedeva “corsi speciali di formazione professionale”: chi accovacciato, chi seduto a gambe incrociate (usanze tuttora in voga in molte tribù) attorno al mucchio delle pannocchie, poi, prese una alla volta, si svestivano da una parte le foglie, dall’altra le pannocchie che, così spogliate, mettevano bene in mostra i granelli giallo-oro. Il lavoro, di solito, andava avanti quasi al tocco di mezzanotte. Se poi le pannocchie dei “spanucèr” erano un quantitativo ragguardevole allora la comitiva di “spanaciadùr” era costretta a darsi appuntamento per le sere successive.

Panòcia dòpp panòcia, par aùr, la stufìsia la sfèva sèntar (pannocchia dopo pannocchia, per ore e ore, la fatica si faceva sentire). Ma verità per verità: il lavoro non era eccessivamente snervante. Savìv piòtost? (sapete piuttosto). Era terribilmente fastidioso: una povernia, quasi inodore, l’andèva so pàr i bùs dal nès (andava su per i buchi del naso) provocando starnuti a mitraglia.


Spanucèr: un gran scadàur (un grande prurito)

Pensate per un istante all’effetto prodotto dalle foglie! A forza di sfregare nelle braccia e nel volto perché ogni tanto dovevi scacciare una zinzèla (zanzara) che a tradimento ti aveva colpito la pònta dàl nès (la punta del naso), la pelle s’irritava cagionando intensi bruciori come se i t’avèsan fàt di masàg càn d’là chèrta smarèglia (come se ti avessero fatto dei massaggi con della carta smeriglia). Credetemi un scadàur da pisès adòs (un prurito da farsi la pipì addosso). Questi erano – come dire- gli aspetti un po’ sgradevoli. E quelli piacevoli ne vogliamo accennare? Qualche volta (rarissime in verità), la “spanuciadùra” era addirittura allietata dal suono di un organino. Non era al livello del maestro Casadei; d’accordo, ma infondeva pur sempre spensieratezza, allegria. Mancava l’organino? Un coro improvvisato non mancava mai. Insomma tutto filava liscio e nessuno osava imprecare se nel gruppo c’era un “canterino” un po’ stonato.

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