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Christian Tumuhairwe aveva la brutta nomea dello svogliato: era dotato di un’ottima fantasia nel trovare espedienti per non andare a scuola. Ma a scuola, quando ci andava, riusciva benissimo.

Era generoso: una volta doveva aiutare la mamma a fare bucato, un’altra doveva aiutare a partorire le due capre della nonna (cui erano stati affidati anche i due fratellini più piccoli). Altre ancora erano creazioni più ardite, al limite del geniale.

No, la fantasia non gli mancava. Piuttosto la voglia di impegnarsi nello studio, di quella sì -è vero- non ne aveva molta. E spesso, in questi suoi espedienti creativi, coinvolgeva anche Lynnette, la sorella, di due classi più avanti.

Rari i casi in cui inventasse qualche dolore di pancia, qualche zoppìa o similari.

Ma era già un paio di mattine che lui e sua sorella tardavano ad alzarsi, ciondolavano fra la casa e il recinto delle capre della nonna, trascinandosi. E davano buca alla scuola.

Era quasi sera, quella del secondo giorno di “fughino” (“drop out of school” scriveva il professore sul quaderno), quando il padre di Christian, tornando dai campi, lo trovò accasciato su una sedia che respirava a fatica. Piangeva e tossiva. Lynnette, la sorella, era a letto, anche lei con la tosse: nessuno dei due aveva avuto la forza di andare a cercare la madre che lavorava nel magazzino del cotone in un villaggio non tanto lontano, poco meno di un’ora di cammino da casa.

Dopo aver gridato in faccia a quei due sfaticati ciò che si meritavano con la rabbia di un uomo sfinito dal lavoro di una giornata passata a zappare la terra, sotto il sole dell’equatore, si accasciò sulla soglia della casa, inebetito, in attesa del ritorno della moglie.

Burrascoso ritorno: la moglie prese ad inveire con il padre per l’inerzia: vero che di medici nel villaggio non ce n’erano, ma la levatrice era pur sempre una persona che avrebbe potuto dare un buon consiglio!

E, in effetti lo diede: subito telefonò all’ospedale (40 km più in là). Aveva già sentito parlare del “coronavirus”. Glielo confermarono: probabilmente di quello si trattava, ma loro non avevano posto (e del resto come avrebbe potuto lui portarvi i ragazzi?) e le ingiunsero di avvisare la scuola.

Il posto che non c’era in ospedale

Ci andò il padre, parlò con il direttore, lui abitava lì vicino. La risposta fu semplice: allargò le braccia dicendo che anche altri ragazzi da qualche giorno erano rimasti a casa. Ne era preoccupato perché se si inizia l’anno scolastico (era iniziato appena da un mese e mezzo, dagli inizi di febbraio) già facendo tante assenze, “che preparazione avranno quei ragazzi?”

E fu tutto!

Due giorni dopo, il 19 marzo il governo decretò il lockdown: chiuse tutte le scuole (oltre al resto).

E fu tutto anche a questo riguardo.

Le date d’inizio sono simili. Simili per l’Italia e l’Uganda: il 9 marzo in Italia e in Uganda il 19 marzo 2020.

Ma le similitudini finiscono qui.

In Italia, sia pure con le tante incertezze dovute all’inesperienza, si corse subito ai ripari mettendo a frutto gli strumenti di un sistema sanitario, strutturato, abbastanza capillare e istituzioni scientifiche che, per quanto prese di sorpresa, hanno potuto reagire.

In Uganda, il sistema sanitario statale è molto limitato, quello privato è molto molto caro (nelle grandi città) e quello fuori dalle grandi città, perlopiù è gestito da confessioni religiose e non sempre  è particolarmente avanzato.

In Italia, alle incertezze conseguenti il dover affrontare una malattia nuova, della quale si ignorava tutto: dal come si propagasse il contagio, alle possibilità di cura, all’insufficienza delle dotazioni sanitarie necessarie si è fatto in qualche modo fronte con le ingenti risorse che lo Stato ha messo a disposizione.

In Uganda non ci sono state condizioni raffrontabili con quelle italiane o, comunque, dei Paesi occidentali, per prevenire il diffondersi della malattia e provvedere a curare chi ne era stato colpito. Strutture sanitarie, corpi intermedi dello Stato, disponibilità di risorse finanziarie hanno fatto ciò che potevano commisurati ai limiti gravanti su un Paese in via di sviluppo.

Anche la similitudine del lockdown quale misura di contenimento del diffondersi del contagio finisce con l’uso della medesima parola, perché le due realtà sono state e sono tutt’ora molto diverse.

Come diverso è stato il modo di sostenere famiglie e imprese proteggendole, nella misura del possibile, dalle conseguenze delle chiusure delle attività economiche e sociali.

In Italia, lo Stato ha provveduto a sostenere, a “ristorare”, le aziende che venivano chiuse e le persone che rimanevano senza lavoro. Con molti limiti, incongruenze, ecc., ma qualcosa s’è fatto.

In Uganda, nel 2020 il governo ha potuto donare qualche chilo di fagioli e posho (farina di mais bianco) ad alcune famiglie di Kampala che rischiavano di morire di fame.

Nel 2021 il governo ugandese ha contribuito con denaro alle necessità di persone le cui attività sono state duramente colpite dal recente blocco di 42 giorni (dagli inizi di giugno a dopo il 15 luglio). I soldi servivano specificamente per sfamare le loro famiglie. L’importo era di 100.000 Scellini ugandesi (circa 25 €), una cifra chiaramente insufficiente per sfamare una famiglia con una media di 4 persone per 42 giorni. Molti di loro hanno dovuto far affidamento per la loro sopravvivenza su altre donazioni e risparmi: parenti e anche la Chiesa Cattolica (e probabilmente anche altre comunità religiose) per ottenere cibo durante questo periodo.

Le cure. La stragrande maggioranza della popolazione ugandese in difficoltà economiche, si è curata con espedienti domestici, talvolta facendo suffumigi con foglie di eucalipto, quando le  trovava. “I costi per i malati di Covid-19 sono esorbitanti: in alcuni ospedali privati si chiedono fino a 5 milioni di scellini ugandesi al giorno, circa 1.500 dollari. Solo pochi ricchi sono in grado di raccogliere una somma così grande. Questo è il motivo per cui la maggior parte dei malati di coronavirus rimane a casa propria a curarsi con succo di limone misto a zenzero.” Scrivono i Salesiani del Centro Don Bosco di Namugongo, a Kampala, la capitale.

Molte imprese delle aree urbane non riusciranno a far funzionare di nuovo le loro attività. Stessa sorte, probabilmente, toccherà anche a molte istituzioni private come le scuole private: stanno chiudendo. La povertà sta diventando più profonda e tangibile qui.

Per quanto riguarda la scuola, tutte le scuole in Uganda, e quindi anche la St. Theresa Vocational Secondary School di Mahyoro, hanno chiuso il 20 marzo 2020 a causa del COVID19. Hanno ripreso brevemente per alcune delle classi (le classi dei candidati agli esami di maturità) nel mese di ottobre, ma hanno chiuso di nuovo bruscamente dopo poche settimane.

Nel 2021 solo alcune classi (classi per le quali è previsto l’esame finale) sono state autorizzate ad aprire a febbraio e nuovamente costrette a chiudere bruscamente ad aprile, senza finire neppure il primo trimestre. Hanno riaperto a giugno ma hanno chiuso di nuovo a luglio. Tutte le scuole sono attualmente chiuse. Ci si propone ora di riaprire le classi finali, ma solo quelle della scuola di medicina in modo che gli studenti possano completare i propri studi e quindi assistere la popolazione nella pandemia del COVID19. Per tutte le restanti scuole, non si sa quando verranno riaperte.

Il tempo proposto per la ripresa delle scuole è: … quando gli insegnanti e la società ugandese in generale avranno vaccinato un numero considerevole di persone (almeno 22 milioni di persone sui 47 milioni stimati di ugandesi).

Si, perché il loro problema più grosso, fra i moltissimi certo non piccoli, è quello dei vaccini.

Al momento meno di 1 milione di persone sono state vaccinate con la prima dose e meno di 300.000 persone hanno ricevuto le due dosi del vaccino.

I vaccini sono troppo pochi. La scorsa settimana il governo ugandese ha importato circa 300.000 dosi dei vari vaccini ma la quantità è assolutamente esigua rispetto ai 22 milioni di persone che aspettano il vaccino, senza poterlo ottenere.

A causa della scarsità di vaccino disponibile, attualmente la priorità per la vaccinazione è data al personale di sicurezza, agli anziani, agli insegnanti, agli operatori sanitari e alle persone più vulnerabili a causa di altre malattie pregresse.

La situazione odierna, dunque, è tale che la maggior parte dei bambini non ha mai stata sottoposta a test e quindi ha largamente diffuso il virus anzitutto alle loro famiglie e ai loro villaggi, in particolare ai loro nonni, molti dei quali sono morti fin dal 2020 e molte persone nei villaggi sono state contagiate e tutt’ora sono ammalate a causa di questo problema.

Il ​​governo dell’Uganda ha cercato di acquistare vaccini, ma ci sono due problemi che l’hanno impedito o lo rendono molto difficile: da un lato i Paesi che producono il vaccino non sono disposti a venderne all’Uganda (e ai Paesi poveri), poiché affermano che devono prima pensare ai propri cittadini; dall’altro esistono clausole di fornitura poste dalle case farmaceutiche produttrici dei vaccini, per esempio all’UE, che impediscono le donazioni ai Paesi poveri senza la loro preventiva autorizzazione. La ragione apportata (e non si farà un gran peccato a pensare che sia solo un gran pretesto) è che sono le stesse Big Pharma a dover presidiare e garantire la continuità della catena del freddo per il vaccino, cosa che potrebbe non avvenire se i vaccini vengono donati e cioè arrivano a destinazione per strade diverse dai loro usuali canali di vendita.

Tutto questo non è saggio perché, come dicono gli scienziati, se non ci preoccupiamo l’uno dell’altro e non diamo fondo alla reciproca solidarietà per uscire da questa vicenda pandemica, nessun Paese avrà successo da solo. Le nuove varianti del virus dai Paesi poveri torneranno in quei Paesi che accumulano il vaccino e tutti rimarremo insicuri.

È meglio condividere ciò che è disponibile con i più bisognosi e metterci tutti al riparo nel minor tempo possibile in modo da salvare vite e da evitare la proliferazione delle varianti del virus.

Cioè, il problema del vaccino non è solo un problema per l’Uganda o per i Paesi poveri, è pure un nostro problema.

Se i Governi occidentali non si decidono a dar corso al programma COVAX  e le Big Pharma produttrici di vaccini a rimuovere le clausole confidenziali di veto alle donazioni dai loro contratti con i Governi occidentali, allora sarà certo il caso di lanciare una vasta e forte campagna internazionale d’opinione che rimetta a posto diritti, egoismi e voracità commerciali.

E con Christian e Lynnette  com’è andata a finire? ci si chiederà.

Giusto! È giusto completarlo il raccolto con il quale abbiamo iniziato: è finita come deve fare gran parte delle famiglie ugandesi in difficoltà. Tutta la famiglia di Christian e Lynnette si è curata con succo di limone e zenzero. I ragazzi si sono salvati e pure i genitori. La nonna no, purtroppo.

Loro a scuola non possono andarci e certo non hanno alcuna didattica a distanza: mancano i computer e in ogni caso la connettività è limitatissima e discontinua, i docenti sono a casa, disoccupati.

La madre è rimasta a casa dal lavoro durante i vari lockdown governativi ed è mancato quel suo pur piccolo contributo al reddito familiare. Del resto con la morte della nonna anche i due fratelli più piccoli che a lei erano affidati sono tornati a casa e li accudisce la madre; il padre ha continuato a lavorare nei campi e Christian e Lynnette gli danno una mano durante la chiusura delle scuole. Anche in questo periodo (estate 2021) stanno ancora vivendo con quel poco che si può ricavare dalla coltivazione del loro fazzoletto di terra: mais per il posho, miglio, fagioli, qualche casco di banana-platano per il matoke.

E c’è da considerarli fra i fortunati, nel contesto ugandese.

Continua…..

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