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Da oggi al 2025 (cioè nei prossimi 7 anni) scomparirà il 50% dei lavori che oggi conosciamo!
E’ un fenomeno già sperimentato nei tempi passati: quanti di noi hanno mai visto all’opera lo “scrivano per conto terzi”, “il tagliatore di ghiaccio”, “il cordaro”, “il lampionaio” o anche solo “le mondine”? … spariti!

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Altri mestieri invece si sono solo rarefatti: “il sellaio”, “l’arrotino”, “l’ombrellaio”, “il calzolaio”. Altri ancora hanno subito trasformazioni tecnologiche di vario tipo: “le lavandaie” , “le centraliniste”, ecc.
Un elemento accomuna la scomparsa o la trasformazione di questi lavori: sono costati posti di lavoro.
Certo, spesso sostituendo la fatica umana con il lavoro delle macchine, elemento questo indubbiamente positivo. Allora quei processi di sostituzione sono avvenuti in tempi molto dilatati, decenni, durante i quali l’evoluzione della società e l’estensione dell’istruzione ad ampi strati di popolazione hanno potuto far acquisire diffusamente contesti culturali e competenze nuove, adeguate alle nuove realtà che l’avanzare dei processi conoscitivi contribuiva addirittura a far sorgere, creando nuovi posti di lavoro, diversi da quelli di cui si aveva esperienza.
Stiamo parlando di un passato in cui il cambiamento culturale precedeva l’innovazione tecnologica, la determinava, la rendeva possibile e fruibile.

Oggi l’innovazione tecnologica avanza ad una velocità inconfrontabile con il passato, precede il cambiamento culturale e con difficoltà ci rendiamo conto dei cambiamenti che sta inducendo nella cultura del lavoro (non solo nelle modalità dello stesso), nei rapporti sociali, persino nel senso del vivere.
Si è detto che il 50% dei lavori che avremo nei prossimi 6-7 anni saranno nuovi e tali che oggi molti di questi neppure riusciamo ad immaginarli.

Un fenomeno che oggi si riassume sotto il nome di “Industria 4.0”, la quarta rivoluzione industriale: un’evoluzione tecnologica dei sistemi di produzione di beni e di servizi che nelle fasi operative (per ora)
prescinde sempre più dall’apporto dell’uomo, sostituito da macchine, i robot.
Un’innovazione che si basa, infatti, su un crescente uso di sensori che consentono la combinazione di automazione e interconnessione fra macchine utilizzate nei processi industriali e non solo (si pensi alle auto a guida autonoma). Noi li immaginiamo prevalentemente come umanoidi, oggetti variamente semoventi, ma sempre più essi assumeranno i connotati immateriali di “relazioni sostitutive dell’intervento umano”.
Una rivoluzione che, come quelle del passato aumenterà certamente la produttività delle attività lavorative e con questa la ricchezza prodotta, ponendo così il tema del suo accumulo e della sua distribuzione.
In termini assai più accentuati e impattanti del passato.
È a questi robot e, in parallelo, ai “sistemi di relazioni” nella produzione di valore che ci si riferisce quando si preconizza la scomparsa del 50% dei lavori oggi conosciuti. E ciò comporterà ovviamente la parallela contrazione delle corrispondenti attività operative oggi presidiate da umani.

Immagine presa da www.googleimmagini.it

Certo, altre attività emergeranno, in parte sostituendo quelle scomparse e ci sarà bisogno di personale più qualificato, diversamente qualificato. Per questo, si dice, ci sarà l’opportunità/necessità di riqualificare anche una parte di coloro che verranno espulsi.
L’ impatto sull’occupazione, dunque, sarà piuttosto devastante e avrà tutta una serie di conseguenze fin d’ora molto prevedibili. Per attenerci anche solo al piano meramente economicistico: i robot non consumano cibi, vestiario, turismo, non versano contributi all’INPS, non percepiscono reddito e quindi non pagano tasse. Con tutto ciò che a questo consegue. A cascata.
Talmente vasti sono i suoi riflessi che sembrerebbe più appropriato iniziare a valutarne anche le implicazioni culturali, psicologiche, sociali. Più che di “Industria 4.0” si dovrebbe pensare alla quarta
rivoluzione industriale in termini di “Ecosistema 4.0”. E provvedervi in un’ottica vasta quanto lo è l’ampiezza della portata del fenomeno che, per la molteplicità di implicazioni e la dimensione planetaria,
non è esagerato qualificare in termini di cambiamento antropologico.

Immagine presa da www.googleimmagini.it

Ora, al di là di quanto -lodevolissimamente- sia stato disposto in termini di agevolazioni fiscali per incentivare l’introduzione di innovazione tecnologica e mettere anche l’Italia al passo con i tempi, appare indispensabile chiedersi se qualcuno si stia occupando del tema nell’ampiezza delle sue ricadute, peraltro condizionanti lo stesso successo dell’obiettivo di ammodernamento del Paese.
Ebbene, nel contesto di questo radicale cambiamento nei modi di produrre ricchezza, qualcuno si sta occupando effettivamente delle sue conseguenze? E in che termini?
Qualcuno sta pensando ad incentivare il rientro di chi ha delocalizzato (back-restoring), perché se con l’introduzione dei robot si riduce il costo del lavoro, forse non ci sarà più bisogno di delocalizzare le produzioni per risparmiare sui salari e si potrà così ridurre, almeno parzialmente in Italia, l’impatto negativo della quarta industrializzazione sull’occupazione.
Qualcuno sta facendo piani per la formazione al nuovo contesto tecnologico, sia delle nuove generazioni, che di riqualificazione degli espulsi dai processi lavorativi? Piani che andranno immaginati adeguati a contesti in perenne evoluzione e quindi tesi all’acquisizione di una propensione ad un continuo apprendimento del nuovo, piuttosto che all’uso di una specifica tecnologia. E qui il cambiamento dovrà essere profondo a partire dalle scuole, passando per le università e continuando sui posti di lavoro o in
situazioni parallele a questi. E quali investimenti sono stati previsti a questo scopo? C’è chi ne abbia sentito parlare o visto qualcosa di deciso e divulgato, considerata l’accelerazione del processo? [1]
Secondo il World Economic Forum entro il 2020 a fronte di 7,1 milioni di posti di lavoro persi ne saranno creati appena 2 milioni di nuovi. Entro i prossimi 3 anni! Mettiamo pure che si sbaglino di un paio d’anni, ma chi sta preparando (sotto il profilo tecnologico e culturale) in Italia quella quota che ci interesserà dei 2 milioni di persone che verranno occupate nei processi innovativi? E più in generale, qualcuno sta pensando a come preparare il Paese a un così cospicuo cambio di cultura economica, sociale, del lavoro, del vivere?
Processi che non possono esser lasciati a se stessi o all’improvvisazione, senza gravi ripercussioni. Chi si sta occupando delle conseguenze del mancato reddito di quella quota crescente di lavoratori che sarà espulsa dai robot? Dell’impatto che questo avrà sui consumi, sul maggior tempo libero che gli espulsi
avranno, sull’autostima di costoro e sulla perdita del senso di dignità della loro vita?
Qualcuno sta pensando ad una possibile redistribuzione della maggior ricchezza prodotta dall’aumentata produttività? O la lasciamo concentrare in modo da favorire un ulteriore incremento delle disuguaglianze?
Già oggi gli 8 uomini più ricchi del pianeta dispongono della stessa ricchezza fruita da ben 3,6 miliardi dei cittadini meno ricchi dell’intera Terra!
Si può pensare ad una diversa distribuzione del lavoro fra lavoratori? Lavoratori appositamente riqualificati in funzione dei nuovi processi produttivi di beni e servizi attraverso una formazione adeguata cui
provvedere con una rapidità pari a quella dell’avanzare dei processi d’innovazione!

Forse, a questo proposito, il “lavorare meno, lavorare tutti” potrebbe uscire dalla logica degli slogan e diventare una condizione di sopravvivenza dello stesso sistema economico in cui viviamo, redistribuendo orario e reddito.
Così come gli slogan di “reddito di cittadinanza”, “reddito di dignità”, “lavoro di cittadinanza” potrebbero essere trasformati da slogan propagandistici pre elettorali a progetto di effettiva “redistribuzione della maggior ricchezza prodotta dalla robotizzazione del lavoro”.

Opportunità, dunque, o dramma?

Impellente necessità, piuttosto!
Da governare. E alla quale dare risposte compiute per tutti i problemi che immancabilmente un’innovazione apre, sia essa tecnologica o di qualsiasi altra tipologia.
Occorre per tutto questo una visione chiara della prospettiva di sviluppo del Paese, una precisa e coerente strategia di politica industriale, fiscale, sociale, culturale da attuarsi con scelte politiche lungimiranti da predisporre ed attuare in tempi brevissimi.
Occorrerebbero degli “statisti”, gente che sappia guardar lontano. Ne vedete in giro?
Ma noi possiamo iniziare ad agire!

Giuseppe Bruni, socio dell’Associazione I Borghi di via Gesso

[1] Questo contributo è stato scritto prima dell’intervento del Ministro Calenda al Meeting di Rimini, il 22 agosto. In quell’occasione il Ministro Calenda ha annunciato “Lavoro 4.0”, una sorta di sgravio fiscale da inserire nella Legge di Bilancio 2018 a favore delle aziende che formeranno i dipendenti alla digitalizzazione. Un primo, minimale provvedimento che, se non altro, intende far fruttare gli investimenti di Industria 4.0. Ma il tema rimane ben più vasto.

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